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Cronaca

L'ansia tradita dell'altrove

Inserito da (redazionelda), mercoledì 24 ottobre 2018 18:34:29

di Raffaele Ferraioli

E' stata definita "Sindrome di Trude", in omaggio alla città invisibile di Italo Calvino, quella metamorfosi progressiva che, in nome della modernità, riduce la qualità urbana, erode il paesaggio rurale, fino ad assumere i connotati di uno sradicamento, di uno spaesamento di appiattimento totale.

L'anima sembra essere volata via dalle nostre città, anestetizzate, ridotte a un umiliante omologazione. Le campagne appaiono stravolte da quel processo inarrestabile che Rocco Scotellaro definì "paesaggio alla città". un passaggio che va visto non solo nell'emigrazione del contadino dall'aratro alla catena di montaggio, quanto nell'esportazione quasi coatta di modelli esistenziali urbani nel rurale.

Cancellati i segni della storia, i luoghi sono stati privati dell'identità, dell'autenticità, del loro carattere più proprio. E' stato sottratto loro quel senso di sottile complicità che li legava ai suoi utilizzatori, fissandoli nel vissuto e nella memoria.

Espressioni quale "andare in campagna" e "andare in città" rischiano di perdere di significato. Eppure l'una rispetto all'altra rappresentano l'altrove a portata di mano.

La proliferazione dei non luoghi annulla la diversità e l'alterità e uccide in tal modo la nostra dimensione di viandanti, di esploratori. Si crea, di pari passo, un circolo vizioso. L'ansia, sempre più inappagata e per molti aspetti tradita dall'altrove, accelera i ritmi di vita di ognuno di noi, crea il vortice della velocità, origina la nevrosi del fast.

Per poter avviare un'inversione di tendenza che punti alla riconquista dello slow, occorre evitare un altro rischio, pure incombente: imboccare la scorciatoia del virtuale, che con i suoi qui e subito finisce per aggiungere al danno la beffa di un altrove falso e ingannevole.

Il vecchio viandante conosceva l'arte di perdersi per ritrovarsi. Il moderno navigatore, dando ragione a Zigmunt Bauman e alle sue teorie sulla modernità liquida, rischia di annientarsi, di sciogliersi nel vuoto.

In una società organizzata per produrre omologazione e che crea uomini paradossalmente felici di somigliarsi, per poter in qualche modo soddisfare l'atavico bisogno di "andare da un'altra parte", occorre imparare a coniugare l'aperto con chiuso, il fast con lo slow, il virtuale col naturale.

Il desiderio dell'altrove si soddisfa solo inseguendo i luoghi in senso fisico. Ma che cos'è un luogo? sono parecchie le definizioni più o meno corrette: "un posto dove la vita fluisce in una trama più o meno visibile, che intreccia le cose e gli eventi"; "una scena animata da un susseguirsi di episodi diversi, unici, tali da rappresentare l'altrove." Definizioni che fanno svanire la presunzione di possedere le cose e testimoniano come noi apparteniamo ad esse e come esse finiscono semmai per possederci.

Cambiare luogo, andare altrove diventa così un modo per sopprendersi, per guardarsi dal di fuori, per cercarsi e spesso ritrovarsi. Il bisogno dell'altrove non può aver fine, anche perché esso rappresenta tutto ciò che manca al nostro completamento.

E se il nesso luogo-identità è alla base dello stesso appeal di una destinazione, le località turistiche sono alla fine quelle maggiormente danneggiate da quella malattia contagiosa, chiamata Sindrome di Trude.

Quale può essere l'antidoto? Quale la pozione miracolosa?

Esistono luoghi di per sé inattaccabili e sono quelli che posseggono difese naturali, capacità innate di resistenza al virus. Sono i luoghi cosiddetti estremi, situati in zone geograficamente difficili, impervie, impermeabili per condizioni ambientali connesse alla loro stessa natura. questo comporta, per altri aspetti, il rischio dell'isolamento, dell'emarginazione e del decadimento sociale e culturale.

Per dirla con Claudio Magris: "Ogni identità è anche orribile, perché per esistere deve tracciare un confine e respingere chi sta dall'altra parte".

Ci sono poi i vaccinati, nei quali la difesa o, se preferite, la resistenza al contagio è il risultato di un progetto, di un'organizzazione ben studiata e attuata.

Va anche detto che il "luogo" contemporaneo non può essere chiuso e aperto al tempo stesso, multiprospettico, incluso ed esclusivo, offerto sia a chi voglia calarsi dentro, cia a chi preferisce restarne ai margini.

L'antinomia fra unicità e universalità è spesso solo apparente. Lavorando sul genius loci si può far diventare universali luoghi, eventi, saperi da condividere e divulgare.

e allora il problema resta quello di sviluppare ambienti creativi e comunicativi la cui identità da il risultato di una tensione sociale e di un processo interpretativo, capace di esaltare le diversità, di riproporre le tradizioni, di valorizzare le espressioni della cultura locale.

Nel patrimonio identitario di ciascun luogo è stata riscoperta in tempi recenti la cultura cosiddetta materiale. E' nato e si è sviluppato, così, il mito del tipico che ha rilanciato il piacere come forma di conoscenza: dagli odori e dai sapori ai luoghi, alla genti, alla loro storia, alla loro cultura. Cibo e luogo sono entrati in reciproca complicità e la nostalgia dei sapori è andata sempre più intrecciandosi con quella del territorio.

Del resto il tipico - quando è autentico, quando non è inventato - è frutto dell'elaborazione di generazioni e ha sempre qualcosa di serio e di interessante da raccontare. esso reca con se l'eco della storia, della civiltà di un territorio e, quel che più conta, è capace di raccontarlo come luogo d'incanto.

Il rischio da evitare è che l'ansia, tradita dall'altrove, finisca per trasformare quel viandante che è in noi in un indolente, del tutto rassegnato all'omologazione incombente. La perdita dell'anima si trasferisce dai luoghi agli uomini: quale aberrante e inaccettabile metamorfosi!

Fonte: Il Vescovado

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