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“Napoli Velata” di Ferzan Ozpetek

Inserito da Paolo Spirito (redazionelda), sabato 6 gennaio 2018 09:57:21

di Paolo Spirito

Dopo aver visto l'ultimo film di Ferzan Ozpetek, "Napoli velata", per associazione diacronica sono andato ripensando al romanzo del mio carissimo Amico e Maestro, Raffaele La Capria, "Ferito a morte" - Premio Strega nel 1961- e al possibile significato che potrebbero avere oggi i "miti" lacapriani quali "la bella giornata", "la foresta vergine", "l'occasione mancata". Recita l'Enciclopedia Treccani alla voce diacronico: "Sviluppo diacronico, di una lingua, di un dialetto, o più in particolare di un elemento fonetico, grammaticale, lessicale è il complesso dei suoi mutamenti attraverso il tempo. Linguistica diacronica (sinonimo di linguistica storica) è quella che considera le strutture e gli elementi linguistici nel loro succedersi e trasformarsi nel corso del tempo, in contrapposizione alla linguistica sincronica che studia una lingua nell'aspetto con cui essa si presenta in un determinato momento, attuale o passato, della sua storia". Nella sua millenaria storia, Napoli è sempre stata città misteriosa e affascinante, con tante altre Napoli stratificatesi una sull'altra, in un rapporto quasi mai idilliaco e serafico, stante sempre in agguato la minaccia dello "sterminator Vesevo", tanto caro al Poeta di Recanati. Con storie sempre nascoste, ignote, improbabili e vere.

Chissà se avesse potuto affascinare Italo Calvino nel suo fantastico itinerario di viaggiatore per mete impossibili. Molti artisti, da sempre, ne sono stati sedotti-e spesso soggiogati-molti hanno tentato di rappresentarla, ma pochi sono riusciti a coglierne la vera, intima essenza. Napoli è labirinto borgesiano in cui ci si può perdere facilmente. Si sbaglia una porta ed il percorso ci porta per strade nemiche. Costruì un esemplare percorso "napoletano" Enrique Vargas quando mise in scena per il suo Teatro de los sentidos il suo labirintico "Cosa deve fare Napoli per rimanere in equilibrio sopra un uovo". Altri si sono limitati a fotografarla senza forzarne gli enigmi, con spettacoli e film non sempre memorabili. Non soltanto per questo sono andato a vedere "Napoli velata" che Ferzan Ozpetek ha girato, facendo di questa città una "protagonista". Curioso del suo lavoro è che suscita sempre contrasti e sussulti molto discordanti, a cominciare da "Il bagno turco" che mi colpì nel 1997.

Anche quel film narrava il percorso scoperto a fatica per penetrare una città misteriosa. Da sempre il mistero affascina Ozpetek e ne contraddistingue la filmografia. Ne sono testimonianza alcune sue opere molto riuscite come "Le fate ignoranti" o " La finestra di fronte", dove Ozpetek è riuscito a costruire poetiche lavorando su epifanie improvvise e memorie riemerse che s'incrociano, creando intrecci appassionati per film di grande fascino, non necessariamente definibili come capolavori ma nemmeno facilmente richiudibili nel concetto di "bello" o di " brutto". Così questa "Napoli velata" m'incuriosiva, non soltanto per comprendere il rapporto "forte" che questo artista confessa di avere con la città, ma proprio per comprendere cosa lo affascina, come ci si rapporta, qual è l'uso interiore che ne fa condividendo la sua esperienza e lavorando con attori molto bravi. Attori che in teatro si legano volentieri alle poetiche "napoletane". E in questo Ozpetek da il meglio di se, fuggendo ovviamente all'idea di una Napoli semplicemente "colorata". Primo tra tutti, in un gioco straordinariamente umano di invenzioni, Peppe Barra, e poi una magnifica Anna Bonaiuto, una raffinata Lina Sastri- quasi irriconoscibile, biondo platinata come l'ha voluta il regista- e Luisa Ranieri, Carmine Recano, Mariapia Calzone. Ci sono in questo film le apparizioni improvvise di Marialuisa Santella e di Angela Pagano, che il dio degli attori ce le conservi a lungo così vivaci e brave. E naturalmente c'è, protagonista insieme al bell'Alessandro Borghi ed a Biagio Forestieri, Giovanna Mezzogiorno con i suoi incancellabili cromosomi napoletani che le consentono di non sbagliare un accento o uno sguardo del suo personaggio "napoletano". Sono stati evidentemente le "chiavi d'accesso" alla città scoperta da Ozpetek, che non si limita a raccontarla o ad usarla come spazio meraviglioso, ma, resala protagonista, cerca di darle voce e anima, a cominciare dalla splendida vertigine della scala liberty di Palazzo Mannajuolo, e dagli improvvisi Pulcinella di Lello Esposito.

Ozpetek scopre luoghi di sontuosa bellezza, di povera felicità, d'inquietanti evocazioni. I napoletani gliene hanno concesso evidentemente l'accesso ed il percorso. Ma tutto questo basta per farne un grande film? Forse no, ma resta uno "spot" d'eccezione per Napoli, molto più che certi superficiali e colorati "promo" di griffati prodotti. Rimane il senso d'incompiutezza stupita del viaggio e delle cose dette e fatte con illogica ed imperfetta sintassi. Ma forse Ozpetek la voleva proprio così questa sua Napoli che non si svela tanto facilmente e non piace proprio a tutti. Lasciando naturalmente da parte la "gelosia" tutta napoletana per i propri prediletti misteri. Tornando ai termini linguistici di diacronico e sincronico con cui ho iniziato, credo che, se applicati alla poetica ozptekiana, solo il secondo sarebbe pertinente per definire "Napoli velata" che ci racconta la Napoli di oggi, in un tragico gioco a nascondere di personaggi e storie che non ci restituiscono, però, i mutamenti epocali che nel tempo hanno contribuito a formarne l'intima essenza. Certo, mi si dirà, ma un film è ben altra cosa da un romanzo ("Ferito a morte" di La Capria), un film risponde solo e unicamente alla fantasia creativa del suo regista. E come negare questo sacrosanto principio. Però, e Ozpetek non me ne voglia, perché il suo è, comunque, un buon film, quanto più diacronico "Passione" di John Turturro (2010) in cui il regista esplora la musica e la musicalità di Napoli, invitando sul suo caravan petroluna messe di artisti oltremodo ispirati, che con la loro interpretazione hanno dato rilievo ai testi delle canzoni, esplicitazione e sintesi della Storia di una città e di un'intera nazione. Storie d'amore e tradimento per Massimo Ranieri e Lina Sastri, passioni sperimentali e signorinelle sfrontate per Raiz, scorrerie sul litorale campano e femmene impressionate per Peppe Barra, festa di San Gennaro e virtù invocata per Pietra Montecorvino, cariche ritmiche e turbanti per Fiorello, '800 e canzoni prima dei microfoni per la voce e il sax di James Senese. Turturro spedisce all'Italia la sua cartolina appassionata, pagando il debito che la musica nazionale ha contratto con la canzone napoletana. Mina apre con "Carmela", Pino Daniele chiude con "Napul'è". Una donna e una città che si incontrano sotto un sole amaro che passa e se ne fuje. Napoli, "è n'ata cosa": "Viviamo in una città che ti ferisce a morte o t'addormenta, o tutte e due le cose", per tornare a "Ferito a morte" del mio carissimo Amico e Maestro, Raffaele La Capria, Dudù.

Fonte: Il Vescovado

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