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"Indimenticabili quei professori"

Inserito da (admin), giovedì 15 settembre 2005 00:00:00

«Ma sono questi i Beatles?». Valeria mi guardò facendo una smorfia a mezzo sorriso, poi cambiò espressione quando si rese conto che la mia non era stata una battuta scema. E rivolta a tutta la comitiva seduta sui gradini del Rancho Fellone, locale mitico in quella lontana estate ischitana del 1963, gridò: «Ragazzi... sapete che cosa mi ha chiesto?». Per una settimana fui lo zimbello del gruppo. Ma nell'inverno e nella primavera precedente non avevo mai ascoltato "Love me do" o "J love you" e quella sera, orecchiando gli aggettivi qualificativi a raffica che la mia amica indirizzava ai Beatles, dedussi che parlasse del complessino che si sarebbe esibito di lì a poco. Sono trascorsi, da allora, 43 anni e quel ricordo mi brucia ancora. Ecco, quando mi chiedono come si vivesse allora nel collegio della Badia di Cava de'Tirreni, il primo impulso è di raccontare quest'aneddoto. Ed invece, parlo dei miei insegnanti: don Benedetto, il rettore del collegio, che di mattina spiegava in modo impareggiabile Kant e di sera poteva colpirti con il nerbo di bue (se eri venuto alle mani con un compagno) e dovevi pure ringraziarlo baciandogli la mano; don Michele Marra, che, rispettando la consegna dei benedettini, di latino e greco si nutriva - e ti nutriva - meglio di un alessandrino (divenne poi abate); don Eugenio De Palma, che nel programma per l'esame di maturità inserì 1150 versi della Divina Commedia da imparare a memoria («Serve per allenarla», spiegò) e che divenne anche lui abate; don Raffele Stramondo, che convinceva anche i più riottosi ad innamorarsi di Giotto, Leonardo, Michelangelo, Tiziano. Insegnanti formidabili, cui interessava poco o punto, quando dovevano a fine anno decidere promozioni o rimandi o bocciature, che i genitori dei convittori avessero pagato un occhio della testa per mantenerli alla Badia. Ai miei figli, che portai in gita sui Monti Lattari, raccontai invece dell'Archivio, il più importante del Mezzogiorno, ma soprattutto delle immense camerate - eravamo in 160 allora - dove si gelava per il freddo (una stufetta elettrica ma solo dall'inverno seguente), tanto che si doveva lasciar scorrere un filo d'acqua dai rubinetti perché non ghiacciasse. Della sveglia mattutina alle 5.50 (alle 6.15 la domenica). E delle ore di studio: 4 il pomeriggio più 1 la mattina, dopo la messa, dalle 6.30 alle 7.30. Pur di andarmene feci due anni di Ginnasio in uno, studiando di notte nei bagni, a lume di candela e con una coperta addosso: mio padre apprezzò lo sforzo, rinviò l'acquisto di una nuova auto e restai lì per il Liceo. Niente giornali, niente radio, niente tv. Svaghi: un'ora di "visita" dei genitori la domenica mattina (per 4 anni spensi su un muretto della strada le candeline sulla torta che mi portava mia madre il giorno del compleanno); una partita a pallone il pomeriggio (se non pioveva), un vecchissimo film prima di cena. Se volevi leggere, ripassavi i classici greci e latini. Eri fuori dal mondo, ma avevi tutto il tempo per acculturarti e stringere amicizie che sarebbero durate per sempre. Pochi, che io sappia, hanno poi fallito nella vita. Lunghissimi, interminabili inverni. Dal 15 ottobre al 22 dicembre; poi dal 7 gennaio a Pasqua; infine, da Pasqua alle agognatissime vacanze estive. Ma se ti comportavi bene ci scappava, massimo un paio di volte, il permesso di andare coi tuoi a pranzo allo "Scapolatiello" e perfino un week-end a casa. In 4 anni, riuscii a guadagnarmene 1. Ma non ho mai rivelato a don Leone Morinelli, l'unico sopravvissuto dei benedettini d'allora, che lo consumai in un prostibolo del Vomero.
Almerico Di Meglio

Fonte: Il Portico

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