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Dal telefono cellulare allo smartphone, quando il progresso tecnologico non è sempre sinonimo di evoluzione

Inserito da (redazionelda), giovedì 5 luglio 2018 13:52:06

di Miriam Bella

Avevo sedici anni il giorno in cui sono entrata in possesso del mio primo telefono cellulare e, se la matematica non è un'opinione, correva l'anno duemilauno.

 

Avevo sedici anni ed ero alle prese con una delle mie prime relazioni sentimentali, per cui un telefono personale stava a rappresentare molto di più di quello che oggi potremmo pensare. Un telefono personale era la libertà di poter contattare (ed essere contattata) l'altra persona bypassando totalmente il controllo familiar/genitoriale; in buona sostanza, un modo, per l'epoca avanguardistico, per evitare le domande imbarazzanti di tua nonna appena chiusa la telefonata o le risatine del fratello di lui quando a telefonare eri tu.

 

Inutile dire che poi col cellulare nemmeno ci si chiamava, perché i minuti illimitati verso tutti erano un lontano miraggio, gli sms costavano e venivano quindi usati per necessità e WhatsApp, letto uguale ma scritto "Wozzup", era soltanto un programma TV condotto da Daniele Bossari.

A cosa serviva, quindi, avere un telefonino, dato che di "smart" non c'era nulla? Ma a farsi gli squilli, è ovvio! Ovvero una telefonata interrotta, che talvolta poteva significare, previo preciso accordo, "scendi, sto sotto casa", per evitare il meno discreto citofono, ma che sempre voleva indicare "ti penso", "ti ho pensato".

E in base al numero di squilli il pensiero si faceva più importante e la persona più vicina, perché era a questo che serviva, in origine, un telefono da portarsi dietro: ad avvicinare chi materialmente era distante.

 

Fa strano, in verità, pensarci ora, in cui il ruolo degli smartphone appare capovolto, basta guardarsi intorno. Intere comitive di ragazzini, più o meno adolescenti, magari seduti sulla stessa panchina, oppure adulti attorno allo stesso tavolo, ciascuno però con gli occhi fissi sopra il proprio schermo, in contatto potenziale con il mondo, ma almeno all'apparenza distanti gli uni dagli altri. Tanto che mi viene da pensare che tutti vogliano in realtà essere altrove, magari nel posto in cui stanno virtualmente navigando.

 

O forse la verità è che i rapporti sono assai più semplici nel mondo della Rete, forse è assai più facile per tutti, incrociarsi schermo a schermo piuttosto che correre il rischio degli incontri umani e lasciare che a piangere e sorridere per noi siano le emoticon, o inviare un cuore ad un amico in difficoltà, anziché abbracciarlo con l'imbarazzo del non sapere cosa dire.

Quello che era nato come un supporto tecnologico per agevolare le conversazioni e di conseguenza i rapporti fra le persone è diventato, ironia della sorte e della tecnologia, una sorta di armatura che indossiamo per proteggerci proprio da quelle stesse relazioni. Proteggerci e nascondere al prossimo la nostra verità.

 

Se ciò può apparirci esagerato, pensiamo che una delle emoji più utilizzate nelle conversazioni on line è la faccina che ride con le lacrime agli occhi. Cerchiamo poi di ricordare quante volte l'abbiamo usata e quante, invece, avete riso fino alle lacrime.

Fonte: Il Vescovado

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