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Storia e Storie

Mastro Antonio Amato

Il lavoro eseguito “a regola d’arte”

Ieri a Ravello si è sepolto un uomo al quale tutti dobbiamo gratitudine

Inserito da Antonio Scurati (redazionelda), lunedì 21 dicembre 2020 12:14:27

di Antonio Scurati*

A "Eehhh... ma questo l'ha fatto mastro Antonio!".

Così mi rispondono i miei genitori ogni volta che, durante il giro di ricognizione nella nostra casa di Ravello per scovare crepe, infiltrazioni d'acqua, piccoli cedimenti, io indico un'intercapedine perfettamente asciutta dopo decenni o una volta a botte perfettamente integra.

"L'ha fatto mastro Antonio!". Bastano queste parole a fornire una spiegazione, un certificato di garanzia del lavoro ben fatto. E questa frase dei miei vecchi, ora che lui non c'è più, mi sembra definire ciò che è stato Antonio Amato, per tutti mastro Antonio: l'uomo del lavoro ben fatto.

Non è poco, non è affatto poco. Anche perché, nel caso di mastro Antonio, il lavoro ben fatto coincideva con il lavoro "eseguito a regola d'arte": Antonio Amato - che la terra gli sia lieve - ogni cosa che faceva la faceva a regola d'arte. Nel suo caso, e di pochi altri, il lavoro accurato, preciso, sapiente incontrava l'arte. Nel suo caso, l'arte dei suoi lavori in pietra (camini, portali, scalinate) prolungava il lavoro ben fatto, eseguito a regola d'arte, delle opere edili ordinarie: costruzioni, ristrutturazioni, restauri. Per uomini come mastro Antonio l'arte non significava affatto l'estro capriccioso e lunatico dell'artista consegnatoci dal cliché romantico. Al contrario, l'arte per uomini come lui significava una sapienza antica, solida, certa, trasmessa di mano in mano di generazione in generazione, di padre in figlio. Non a caso, per individuare uomini come lui era d'obbligo usare il patronimico: mastro Antonio di mastro Ciccio.

L'arte che mastro Antonio aveva nelle mani, nell'occhio, nella testa (e nel cuore) era la stessa che, secoli or sono, scolpì il portale del Duomo, stuccò i fregi di villa Rufolo, costruì la terrazza dell'infinito a villa Cimbrone (e la Rondinaia, ovviamente). Ogni volta che, nel corso degli anni, ho alzato gli occhi ammirato verso una di queste opere d'arte e mi sono chiesto che aspetto avessero gli uomini che le realizzarono, ho sempre pensato a mastro Antonio. Uomini come lui hanno disseminato di bellezza sapiente, solida, durevole, luoghi come Ravello. Per questo e altri motivi possiamo dire senza nessun timore di cadere nella retorica che ieri a Ravello si è sepolto un uomo al quale tutti dobbiamo gratitudine.

Perché il compianto funebre non sia vano, dovremmo, però, prendere a modello un uomo del genere. Lo stiamo facendo? Temo di no. La storia di mastro Antonio ci insegna che non è affatto vero che il talento non si insegna. S'insegna, eccome! Si insegna e si apprende. Si trasmette da padre in figlio, da maestro ad allievo. La regola di quell'arte è, per definizione, ereditabile, nelle sue opere ma anche nelle sue pratiche. E, allora, chiediamoci: quanto sta ereditando da uomini come mastro Antonio la Ravello odierna? Molto nelle opere, molto poco nelle pratiche. A Ravello oggi, purtroppo, gli artisti-artigiani come mastro Antonio si contano sulla punta delle dita di due mani, le botteghe artigiane su quelle di una mano sola. Troppo poco. Un vero peccato, un enorme spreco. Una resa alla morte di un uomo come estinzione di un'intera tradizione.

Mi sia, consentito, dunque, in chiusura, un ricordo personale.

Negli ultimi anni, ogni volta che incontravo mastro Antonio, lui, che non era certo uomo da ipocriti complimenti, s'intratteneva con me congratulandosi per la mia carriera di scrittore e si compiaceva di ricordare ai presenti che mi conosceva fin da ragazzino. Io, di rimando, in tutta sincerità, gli manifestavo la mia ammirazione dicendogli che i miei libri non valevano certo più dei suoi lavori in pietra, degli archi che aveva costruito sospesi nel vuoto, delle volte che aveva edificato sotto il cielo della Costa d'Amalfi.

Lo pensavo e lo penso ancora. Per questo motivo, esprimo l'auspicio che un'iniziativa in suo nome, e in sua memoria, possa favorire e tutelare ciò che resta del lavoro artigiano a Ravello. Il lavoro ben fatto, a regola d'arte.

L'opera della bellezza non può essere solo l'opera del passato. Al presente non possiamo riservare soltanto brutture, approssimazioni, abusi. Non possiamo arrenderci all'idea che la morte di una manciata di uomini come mastro Antonio significhi l'estinzione di una tradizione millenaria.

*scrittore, Premio Strega 2019, editorialista del Corriere della Sera, cittadino onorario di Ravello

Fonte: Il Vescovado

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