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Tu sei qui: Storia e StorieLa testimonianza di un'infermiera di Cava: «Qui, al Cotugno, c'è voglia di combattere»

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Cava de' Tirreni, infermiera, sanità, Cotugno, Napoli, Coronavirus

La testimonianza di un'infermiera di Cava: «Qui, al Cotugno, c'è voglia di combattere»

L'infermiera cavese ha parlato della sua esperienza dall'inizio dell'emergenza sanitaria

Inserito da (redazioneip), giovedì 2 aprile 2020 14:18:24

In un periodo storico particolare per il nostro Paese, a causa dell'emergenza rappresentata dal coronavirus, si ergono la tenacia, la passione e la forza del personale sanitario italiano. Sono tanti gli operatori sanitari, medici, infermieri, che in queste settimane lottano senza sosta nelle corsie degli ospedali per salvare quante più vite possibili.

Tra di loro c'è Miriam Senatore, giovane infermiera di Cava de' Tirreni, che presta servizio proprio nella prima linea dell'ospedale infettivologico Cotugno di Napoli. Intervistata da Adriano Rescigno su L'Ora di Cronache, l'infermiera cavese ha parlato della sua esperienza dall'inizio dell'emergenza sanitaria.

«Nei primi giorni dell'epidemia - ha esordito Miriam - il lavoro lo si affrontava con molti timori, molto coinvolti emotivamente per una condizione nuova e con continue evoluzioni, dettate sia dai cambiamenti dei continui decreti ministeriali che dalle indicazioni fornite dall'Istituto Superiore di Sanità e dalle società scientifiche per adoperare le giuste procedure».

«È sempre dura psicologicamente accettare l'impossibilità di offrire un'assistenza più 'partecipata' - dice - nel senso
che le protezioni che siamo costretti ad indossare (i famosi DPI) ci rendono difficilmente identificabili anche nel sesso, dai
pazienti. È un paziente che vive in solitudine la propria malattia. È così cambiato anche il modo di comunicare agli stessi familiari le condizioni cliniche dei loro parenti, che non possono ricevere visite. Tutto avviene telefonicamente. Anche con gli stessi pazienti le richieste ed i dubbi, o anche solo qualche chiacchiera, vengono spesso soddisfatti telefonicamente, al numero della medicheria, tentando di accorciare il più possibile queste inevitabili distanze fisiche».

«I turni lavorativi sono molto sacrificati, - continua - si va a lavoro sapendo di dover indossare per svariate ore tute nelle quali si suda al minimo movimento, calzari, occhiali che si appannano in un attimo, tripli paia di guanti così che il prelievo lo fai più "a sentimento", a memoria, secondo le reminiscenze anatomiche. Mascherine, visori, occhiali, copricapo, guanti che in un prelievo creano notevole disagio. Bisogna avere la lucidità di decontaminarsi ad ogni minimo contatto per evitare di contagiarsi o di contagiare. Il peso dei presidi lo leggi a fine turno, quando il volto è sfigurato, ed a volte lo è anche il giorno dopo, quando ritornerai con la tua armatura. Il sollievo, la voglia, la spinta di lavorare, spesso viene da quei frequenti gesti di solidarietà ricevuti dalle persone, quel popolo napoletano meraviglioso che ci invia viveri quali zeppole, caffè, pizze, cioccolatini (ma che non nascondo spesso non abbiamo voglia di mangiare per paura di contagiarci, per paura di portare il virus a casa, di essere autori di un nuovo caso positivo) a cui si aggiungono ringraziamenti appesi su striscioni all'ingresso principale, un semplice grazie, che ora più che mai ci dà forza e speranza».

«In queste situazioni di difficoltà, - conclude Miriam - si scopre uno spirito di famiglia anche sul luogo di lavoro, si abbandonano i vecchi rancori, siamo tutti in pericolo, siamo tutti vicini, si coopera e ci si spalleggia in équipe per allontanare quella tensione emotiva che è innegabile. Un momento storico triste tra morte, dolore e ansia, ma con qualche piccolo frangente positivo: la voglia di combattere insieme».

Fonte: Il Portico

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